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Volontariato di Protezione Civile

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L’evoluzione del concetto di Volontariato di Protezione Civile

home-01 Di volontariato di protezione civile si è sempre parlato nel nostro paese negli ultimi venti anni.
La predisposizione al rischio territoriale assieme al carattere fortemente vocato alla solidarietà della sua popolazione, fanno certamente dell’Italia un paese speciale in riferimento al mondo complesso della protezione civile. Lo sviluppo del fenomeno del volontariato di protezione civile non sfugge a questa regola.
Di volontari di protezione civile in senso operativo si parla per la prima volta in quella che è
considerata la prima legge (anche se non certamente di legge organica si trattava) che ha
parlato esplicitamente di protezione civile.
La legge 996/70, infatti, all’articolo 5 comma c. prevedeva esplicitamente che il corpo nazionale dei VV.F. avesse il compito di curare “l’addestramento e l’equipaggiamento in materia di protezione civile di cittadini che volontariamente offrono la prestazione della loro opera nei servizi di protezione civile”.
La natura del rapporto di tali cittadini volenterosi con il sistema prettamente estate che si occupava delle calamità, non era mai stata fino ad allora disciplinata in alcun modo.
Così, al comma successivo, si prevede che “per le volontarie prestazioni di cui alla lettera c. nessun rapporto si instaura con l’amministrazione, la quale è peraltro tenuta ad assumere a proprio carico oneri assicurativi che garantiscano prestazioni pari a quelle previste per il personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”.
Il volontariato viene individuato come un fatto occasionale, sporadico e legato alla libera determinazione del singolo che viene “aggregato” alla macchina organizzativa. Il cittadino che si offriva o veniva precettato per collaborare alle attività, veniva inserito nel cosiddetto “ruolino” della Prefettura, e dopo qualche mese dall’intervento (per esempio su un incendio) riceveva un piccolo rimborso spese.

Concetto di prossimità

E’ noto che secondo il principio di sussidiarietà, i servizi vanno organizzati con criteri di prossimità (“Decisions should be taken as near as possible to the point of application” – Jacques Delors).
Per questo la risposta alle eventuali calamità dovrebbe essere organizzata, già a a partire dal cosiddetto “tempo ordinario”, il più vicino possibile al luogo del disastro, sia in termini di decisione che in termini di disponibilità immediata di risorse. Un concetto che, per quanto rimasto in gran parte inascoltato fino ai giorni nostri a dispetto della sua ovvia saggezza, era stato espresso fin dal disegno di legge del 1982 che divenne, dopo dieci anni di iter parlamentare, la 225: “il sistema di protezione civile deve essere preesistente all’evento”.
Se oggi il concetto di prossimità sta conquistando in protezione civile una sempre maggiore importanza, lo si deve in gran parte anche all’insegnamento tratto dalle maggiori esperienze di gestione emergenziale vissute nel nostro paese nella storia recente.
E’ infatti soprattutto in occasione dei due più grandi terremoti del dopoguerra che si è potuto comprendere il valore della prossimità, se mai ce ne fosse stato bisogno.

Friuli 1976

Riguardo alle due grandi  scosse del Friuli avvenute il 6 maggio e il 15 settembre del 1976, uno dei fattori di quello che l’opinione pubblica ritenne un “successo” operativo dal punto di vista dell’efficacia dei soccorsi, fu costituito dalla presenza nella zona di alcune decine di migliaia di soldati che, essendo schierati per motivi di guerra fredda a pochissimi chilometri di distanza,

furono catapultati e disseminati nei diversi centri interessati ad effettuare i primi soccorsi alla popolazione.
Se a ciò aggiungiamo che l’intervento venne condotto in condizioni orografiche [vedi orografia] e di viabilità accettabili (la zona più colpita era in gran parte pianeggiante) e che l’indubbio carattere proattivo della popolazione locale fece la sua parte, si comprende perché l’Italia poté mostrare al mondo un volto “efficiente” della protezione civile italiana che non era così realistico come ci sarebbe aspettati e soprattutto non poteva esserlo assolutamente, per motivi oggettivi, in altre parti d’Italia.

Irpinia 1980

Solo quattro anni dopo, infatti, nel 1980, con il terremoto nella regione compresa tra la Campania e la Basilicata, il panorama cambiò radicalmente.

In questa occasione l’assenza di risorse operative già allocate sul posto e immediatamente attivabili, unitamente alle indiscutibili difficoltà esistenti nella mobilità, legate all’orografia e al periodo di accadimento (23 novembre, con nebbia, pioggia e freddo), determinarono il tracollo delle operazioni di soccorso nelle prime 72 ore, mostrando il volto di una inefficienza diffusa e
di una tendenza del sistema ad arrivare in fortissimo ritardo rispetto alle necessità per mancanza di un’organizzazione preventiva.
Ripercorriamo in breve quella vicenda operativa:

  • l’epicentro del terremoto fu calcolato solo il giorno successivo a causa della presenza all’epoca di due soli sismografi funzionanti, che operavano esclusivamente in orario di ufficio (mentre il terremoto arrivò alle 19.00 e di domenica, ndr); ciò fece sì che ci si presentasse con le prime colonne di VV.F. in alcuni tra i luoghi maggiormente colpiti e pieni di morti, anche dopo tre giorni, mentre risultarono privilegiati i comuni della cintura più esterna del terremoto, meno colpita, i cui sindaci facevano bloccare le colonne in arrivo per essere aiutati quantunque interessati in modo più lieve
  • come del resto avvenne anche in Friuli, anche in Irpinia, quando finalmente dopo alcuni giorni l’intervento -tutto centralistico- governato da Roma riuscì comune a dispiegarsi, si registrò un imponentissimo spiegamento di forze che, come in Friuli, vedevano nell’esercito la fonte maggiore di approvvigionamento. Ben 38.000 furono gli uomini impiegati, di cui 19.000 dell’esercito, 8000 carabinieri, 5000 dell’aeronautica, 2000 della Marina, 600 della Guardia di Finanza, 200 forestali.

 

Lo scenario italiano dei soccorsi e il fenomeno del volontariato

Lo scenario di intervento legato alla presenza di un forte contingente di soldati non è oggi più realistico, sia per il calo demografico fisiologico che ha ridotto progressivamente e sensibilmente la possibilità di approvvigionamento di reclute, sia per l’abolizione della leva militare obbligatoria, sia infine per il fatto che il nostro esercito già di per sé molto ridotto nei numeri a causa di quanto sopra, risulta oggi ordinariamente impegnato per almeno la metà dei suoi ranghi in operazioni di pace all’estero, cosa che gli impedirebbe di essere impiegato in tempi utili in una qualsiasi calamità nazionale.
Era tempo dunque che il paese si desse una risposta sul come garantirsi efficacia e completezza di azione in occasione dei maggiori disastri in considerazione di un in considerazione di un handicap annunciato di tali proporzioni.
La principale, e del resto più naturale risposta al mutamento profondo istituzionale e organizzativo intervenuto nel nostro paese, è stato soprattutto l’impiego del volontariato.
Oggi, in emergenza, rispetto ai numeri del passato, in cui si assisteva all’intervento in massa delle risorse statali, che erano costituite essenzialmente dalle Forze Armate, dalla Croce Rossa e dai Vigili del Fuoco, registriamo oggi invece un apporto quali-quantitativo del tutto differente:

Il periodo delle grandi associazioni nazionali

Il fenomeno della riduzione della disponibilità di risorse militari per la protezione civile non è peraltro cosa recentissima, e data da qualche anno, tanto che una sua conseguenza diretta in termini operativi è già stata osservata in occasione del terremoto del 1997 in Umbria e Marche, in cui la struttura dei soccorsi distribuita sui vari campi di organizzazione, parlò prevalentemente toscano, poiché in sostituzione di quella forza di manovra non più disponibile che era rappresentata dalle forze armate, stante la ben altra consistenza organizzativa delle regioni in quegli anni,il Dipartimento dovette far ricorso, soprattutto per le prime ore, all’intervento delle macro-organizzazioni di volontariato all’epoca numericamente più significative, e che in quel particolare momento erano le uniche in grado di garantire un arrivo abbastanza tempestivo e minimamente organizzato e autosufficiente sui luoghi, cioè con una dotazione di mezzi e squadre in regime di turnazione che si caratterizzassero per una sostanziale autonomia operativa, anche se in assenza di un vero e proprio addestramento: in quella occasione si trattò primariamente, per quanto riguarda l’assistenza alla popolazione, della Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia e dell’Associazione Nazionale delle Pubbliche Assistenze, realtà associative come è noto diffusissime soprattutto in Toscana e nell’Italia centrale; si ebbe poi la partecipazione dell’A.N.A. per quanto concerne la logistica, e cioè essenzialmente la realizzazione di tendopoli di una certa consistenza. I risultati, come noto, furono contrastanti, sia in termini di efficacia e tempestività di azione (situazione
complessa, estensione delle aree colpire, squadre inesperte, mancanza di attitudine a gestire un disagio forte e diffuso nella popolazione), sia in termini di coordinamento (non si riuscì nelle prime ore stabilire una direzione unitaria dei soccorsi) , sia in termini di “qualità” (tanto che vi furono parecchie polemiche sullo scoordinamento e la disomogeneità delle operazioni e della
distribuzione dei beni di soccorso).
Dopo quella vicenda, lo Stato aprì gli occhi sulla svolta epocale che si stava consumando, e decise –volente o nolente- che era comunque il caso di tentare di abbandonare la tradizionale diffidenza verso il sistema del privato-sociale che aveva caratterizzato tanta parte degli anni ‘80, per potenziare in modo esponenziale le politiche di valorizzazione del mondo dell’associazionismo già preannunciate dalla legge 24.2.1992 n. 225, la quale riconosceva alle forze organizzate del volontariato la dignità di “strutture operative” del Servizio Nazionale (art. 11) e intendeva assicurare (art. 18) l’obbligo del loro più ampio coinvolgimento in ogni
tipo di attività di Protezione civile, previa soltanto l’approvazione di un apposito regolamento (il primo sarà il DPR 613/94) della disciplina organica del settore e dei rapporti che da questa affermazione di principio potevano discendere, con particolare riguardo al sistema delle tutele e delle garanzie dei volontari impegnati nel sistema.
L’esperienza umbro-marchigiana aveva però insegnato anche alcune cose fondamentali su quel mondo complesso in disordinata ma sempre più rapida crescita:

  • Laddove avveniva in Italia, la crescita del volontariato aveva la classica conformazione della macchia di leopardo: grandi associazioni al centro, una miriade di piccole associazioni e di gruppi al nord, con l’ANA a far da punto di riferimento un tantino più diffuso; e ancora grandi difficoltà al sud e specialmente in alcune regioni, nel far sviluppare il fenomeno sotto qualsiasi forma.
  • C’era tutto da inventare sul piano del coordinamento nazionale, sulla formazione e l’addestramento e ancora molto da fare sui meccanismi di attivazione;
  • Andava senz’altro disegnato in protezione civile un nuovo fondamentale ruolo per le regioni e per le province (e la risposta sarà il D.lgs. 31.3.1998 n. 112 detto “Bassanini”) non solo nella partecipazione al sistema , ma segnatamente nel coordinamento e nel governo del “fenomeno” volontariato;
  • Occorreva in particolare capire quale tipo di assetto poteva prendere il mondo delle volenterose “piccole organizzazioni”, in continua crescita esponenziale, all’interno del sistema complesso dei soccorsi in occasione degli eventi di tipo C, i più gravi, in cui vi è necessità di ridurre e massimizzare, piuttosto che aumentare e polverizzare, il numero degli interlocutori dello Stato durante le operazioni: per fare un esempio, in Umbria – Marche la logistica del campo base umbro di Nocera Umbra venne affidato sostanzialmente alla logistica delle Anpas, quella del campo marchigiano di Serravalle del Chienti alle Misericordie d’Italia, mentre a Foligno venne attrezzato un campo di raccolta e coordinamento di tutte le piccole associazioni (soprannominato la “Paciana”), in modo da consentire di coordinare in modo organizzato le buone ma piccole risorse delle singole piccole organizzazioni.

E’ evidente che lo Stato tende in quell’epoca a far riferimento alle grandi organizzazioni, con le quali si intrattengono rapporti di collaborazione anche a livello di coordinamento nazionale per le più grandi decisioni, nel mentre si realizzano in Italia alcune grandi esercitazioni che coinvolgono massimamente proprio questi interlocutori.

Il cambiamento si fa strada

Ma già si fanno avanti alcuni fortissimi fattori di cambiamento che spingono a una riflessione ben più profonda:

  • il ”Bassanini” comincia a dare i suoi primi effetti in termini decentramento di funzioni, e alcune regioni, più organizzate e ambiziose, investono da subito nell’implementazione di propri sistemi regionali. Questi impulsi hanno varia origine: talora spontanea, talora in polemica di tipo politico con il governo nazionale in carica, talora per semplice spinta autonomistica, tale altra ancora per la capacità o l’ambizione del singolo assessore o dirigente regionale: ma è un fatto che le regioni crescono, e rapidamente, e la legge di riforma costituzionale 18.10.2001 n. 3 va a ratificare definitivamente questo nuovo atteggiamento, sancendo la facoltà di “legislazione concorrente” fra Stato e Regioni in materia di Protezione Civile.
  • l’affidabilità teorica delle grandi associazioni sul piano numerico, logistico e dell’autonomia di movimento, comincia a mostrare alcune falle, ed è controbilanciata in negativo dal rischio di una eccessiva despecializzazione e, soprattutto, dall’assenza pressoché completa di radicamento di tali organizzazioni in gran parte del paese.
  • lo sviluppo, dovuto essenzialmente al motivo appena espresso, di un grande movimentiamoor ganizzativo di piccoli gruppi e associazioni soprattutto nel nord d’Italia, che si pongono per alcuni versi come esperienza alternativa, sul piano della funzionalità e dell’interoperabilità, a quella delle macro associazioni;
  • gli amministratori locali sposano un po’ ovunque tale esperienza, trasformandola da fenomeno da privato-sociale in esperienza amministrativa (convenzioni, gruppi comunali) di vera e propria erogazione di un servizio pubblico o semi – pubblico;

I Gruppi Comunali di Volontariato

La nuova attenzione prestata alla ricerca di una “adeguatezza” tecnica e amministrativa locale così come teorizzata dai decreti ”Bassanini” si è concretizzata soprattutto nell’intelligente allargamento e nella diffusione di un volontariato “organizzato” (che non significa necessariamente di grande dimensionamento) anche in quelle regioni ove non vi era una tradizionale presenza di associazioni storiche come le Misericordie e le Pubbliche Assistenze. Il meccanismo per questo ampliamento del fenomeno è stato appunto individuato nella valorizzazione dell’esperienza dei “Gruppi Comunali di volontariato di Protezione Civile”, che oggi alimenta soprattutto il sistema di alcune regioni del nord come la Lombardia e il Friuli: una soluzione che allarga il tiro dal semplice ricorso al contributo del terzo settore per iniziative occasionali, fino al tentativo di realizzare un processo sistematico di potenziamento dei servizi di carattere pubblico, da raggiungersi anche attraverso la valorizzazione delle capacità
organizzative delle sempre più importanti autonomie locali utilizzando ad esempi la tecnica
della/e convenzione/i con il gruppo o l’associazione presente sul territorio.

La disciplina del volontariato oggi

La disciplina dei rapporti del volontariato con il servizio locale e nazionale è oggi assicurata dal regolamento previsto dall’articolo 18 della legge 24.2.1992 n. 225. La legge 225 richiamava molto chiaramente l’esigenza di definire in dettaglio i rapporti del volontariato con il sistema istituzionale:

”Legge 24.2.1992 n. 225 Art. 18 Volontariato”

  1.  Il Servizio nazionale della protezione civile assicura la più ampia partecipazione dei cittadini, delle organizzazioni di volontariato di protezione civile all’attività di previsione, prevenzione e soccorso, in vista o in occasione di calamità naturali, catastrofi o eventi di cui alla presente legge.
  2. Al fine di cui al comma 1, il Servizio riconosce e stimola le iniziative di volontariato civile e ne assicura il coordinamento.
  3. Con decreto del Presidente della Repubblica, da emanarsi, secondo le procedure di cui all’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della presente legge, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, si provvede a definire i modi e le forme di partecipazione delle organizzazioni di volontariato nelle attività di protezione civile, con l’osservanza dei seguenti criteri direttivi:
  • * la previsione di procedure per la concessione alle organizzazioni di contributi per il potenziamento delle attrezzature ed il miglioramento della preparazione tecnica;
    * la previsione delle procedure per assicurare la partecipazione delle organizzazioni all’attività di predisposizione ed attuazione di piani di protezione civile;
    *i criteri già stabiliti dall’ordinanza 30 marzo 1989, n. 1675/FPC, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 81 del 7 aprile 1989, d’attuazione dell’articolo 11 del decreto-legge 26 maggio 1984, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 1984, n. 363, in materia di volontariato di protezione civile, in armonia con quanto disposto dalla legge 11 agosto 1991, n. 266.

3-bis. Entro sei mesi dalla data di conversione del presente decreto, si provvede a modificare il decreto del Presidente della Repubblica 21 settembre 1994, n. 613.

Il regolamento, dapprima approvato con DPR 613/94, è poi sostituito dal più recente DPR 8 febbraio 2001 n. 194, attualmente in vigore. Attraverso il regolamento si sanciscono alcuni importanti punti fermi dello status giuridico del volontariato di protezione civile:

  • Si definiscono i requisiti delle Organizzazioni “liberamente costituite e senza fini di lucro” per svolgere e promuovere quattro attività specifiche della protezione civile, quali la previsione, la prevenzione, il soccorso e la formazione.
  • Si introduce il termine “Organizzazione” di volontariato, in modo da individuare e ricomprendere fra gli interlocutori del sistema, assieme alle associazioni tradizionali, anche l’emergente realtà dei “Gruppi Comunali”.
  • Si prevede l’iscrizione delle organizzazioni in un apposito “elenco nazionale“, che avviene però per tramite delle regioni, per la necessità di raccordare la disciplina regolamentare con le previsioni del D.lgs 112/908 Bassanini nel frattempo intervenuto,
  • per il quale il coordinamento del volontariato di protezione civile avviene a livello regionale; in Regione si acquisisce tra l’altro il parere tecnico necessario a dare il via all’iscrizione.
  • Si prevede infine l’iscrizione, direttamente presso il Dipartimento (bypassando dunque le regioni), per le cosiddette grandi organizzazioni nazionali (Misericordie, A.N.P.As., A.N.A.)
  • Si disciplina la concessione di contributi alle organizzazioni per l’acquisto di mezzi e materiali o per la realizzazione di iniziative di formazione o di esercitazione.
  • Si disciplinano le procedure per l’attivazione delle organizzazioni in caso di evento e i benefici di legge ad esse legati;
  • Si stabiliscono e si regolamentano le tutele di garanzia per il volontario chiamato in interventi di protezione civile (mantenimento del posto di lavoro, mantenimento del trattamento economico e previdenziale, copertura assicurativa, durata del periodo di assenza dal posto di lavoro)
  • Si disciplinano le attività addestrative coperte da benefici di legge;
  • Si prevedono i rimborsi economici per le spese sostenute dalle organizzazioni di volontariato in attività di protezione civile riconosciute dal Dipartimento nazionale;
  • Si prevedono i rimborsi per i lavoratori sia dipendenti che autonomi per le giornate di effettivo impiego;

Dunque, le organizzazioni di volontariato che oggi intendono partecipare al sistema debbono iscriversi all’albo nazionale e nell’apposito registro regionale che ne costituisce l’anticamera. Attualmente all’elenco nazionale del Dipartimento della Protezione civile sono iscritte circa duemila e cinquecento organizzazioni tra associazioni e gruppi comunali, per un
totale di oltre un milione e trecentomila volontari disponibili.
Tra questi, sono circa sessantamila complessivamente i volontari da ritenersi pronti ad intervenire nell’arco di pochi minuti sul proprio territorio in qualsiasi momento, mentre circa trecentomila sono pronti ad intervenire nell’arco di qualche ora dovendo partire da più lontano per portare assistenza fuori dalla propria zona di consueto impiego.

Le forme possibili del volontariato di protezione civile

Valutiamo adesso le diverse forme in cui si manifesta la presenza del volontariato di protezione civile in Italia. Va detto intanto che l’associazionismo in tutte le sue forme è da decenni, ormai, in Italia la modalità consolidata in Italia di attività volontaristica nel campo della protezione civile. Nella vasta gamma di colori e uniformi del volontariato associativo, si possono distinguere:

Le grandi associazioni

Di origine storica abbastanza lontana  (le Misericordie risalgono al Medioevo, le AnPAs all’inizio del secolo scorso), sono presenti su scala nazionale, anche se fortemente diffuse solo su alcune regioni. Esse sono fondate su un’organizzazione strutturata su più livelli di coordinamento (nazionale, regionale, provinciale o zonale, singola sezione associativa locale), cui si fa ricorso anche per quanto riguarda gli eventuali allertamenti e le partenze per emergenze nazionali di quote di personale da far turnare. Tra le grandi organizzazioni nazionali, iscritte direttamente dal Dipartimento all’elenco nazionale, si suole ricomprendere essenzialmente la Croce Rossa Italiana, la Confederazione delle Misericordie d’Italia, l’An.P.As., la ProCiv, l’A.N.A. La loro modalità di espansione e di proselitismo consiste in genere nell’aprire una sede dell’associazione in una località grazie ai contatti e ai rapporti intercorsi con la realtà locale. Negli ultimi anni ciò è avvenuto spesso in seguito agli sviluppi di gestioni emergenziali che hanno visto le grandi associazioni aprire sezioni associative nelle zone in cui avevano operato per alcuni mesi con il proprio personale. La
caratteristica più significativa delle macro organizzazioni, dal punto di vista del modello di volontariato, è quella della loro forte autonomia, la loro sostanziale indipendenza rispetto alle istituzioni pubbliche. Un’indipendenza a cui le organizzazioni tengono naturalmente moltissimo, e che è retaggio del periodo di incubazione del volontariato, in cui il sistema pubblico tendeva a respingere ideologicamente come esperienza spuria la voglia di impegno del cosiddetto terzo settore. Se vogliamo, anche una “voglia” di autonomia che, nel passato, ha creato talora qualche problema nei rapporti organizzativi e operativi tra il coordinamento istituzionale e le grandi associazioni, che tendevano ovviamente ad essere “inquadrate” il meno possibile in uno schema di comando e controllo in quanto consapevoli delle proprie dimensioni, e quindi del proprio potere contrattuale all’interno del sistema.
I rapporti non sono quasi mai semplici o idilliaci, causa la tendenza di quest’ultime a voler emergere sul piano della comunicazione pubblica, talora in antagonismo tra loro, e per la loro riottosità a qualsiasi forma di coordinamento superiore che ne imbrigli la volontà di muoversi in piena autonomia per conseguire anche obiettivi di immagine. La professionalità dei volontari delle grandi associazioni è viceversa da considerarsi abbastanza limitata, disomogenea a causa dei grandi numeri mobilitati, e tendenzialmente despecializzata.

Le associazioni locali

Sono forme di volontariato associativo che sono andate a riempire gli interstizi lasciati vuoti dalle grandi associazioni in molte regioni d’Italia, abbastanza diffuse sia al nord che al sud, con preferenza forse nel sud d’Italia. Si tratta di una miriade di associazioni locali di piccola e a volte media dimensione, di origine più o meno datata e dai nomi più svariati e talvolta pittoreschi, il cui più frequente rapporto di collaborazione con le strutture pubbliche (e segnatamente i sindaci) è spesso fondato su convenzioni in cui si pattuiscono servizi in cambio di provvidenze e/o sostegni economici o organizzativi. Costituite formalmente come associazioni, esse sono presenti un po’ dappertutto in modo abbastanza diffuso ma obbligatoriamente disomogeneo, tanto da aver reso necessaria nel tempo la costituzione di forme di coordinamento su scala provinciale o regionale, anche sotto forma di “consulta” o di “colonna mobile”. Costituiscono spesso un forte valore aggiunto per il loro ottimo inserimento nel tessuto della realtà locale e per l’indubbia capacità di interagire con le istituzioni in modo abbastanza flessibile ma certamente autonomo.

I gruppi comunali di volontariato di protezione civile

Presenti soprattutto nel nord d’Italia, dove un po’ in tutte le regioni sono andati ad integrare la rete esistente delle macro organizzazioni (essenzialmente A.N.A. e CRI) e anche la più fitta rete di piccole associazioni. Presenti, particolarmente in Lombardia, nei centri di più recente formazione e nelle cinture metropolitane, ma se ne registra la presenza anche in centri di più antica formazione.
Si tratta di organizzazioni sorte più o meno spontaneamente ma con la partecipazione oppure sotto l’impulso dell’ente locale, che ne disciplina intenzionalmente la nascita, l’organizzazione e la regolamentazione con apposite deliberazioni comunali, a cominciare da quella istitutiva e regolamentare, approvata in genere dal consiglio comunale, cui seguono bandi di adesione e iscrizione, corsi di formazione, elezioni dei vari gradi di coordinamento. Gli esempi esistenti vedono talvolta il sindaco inserito nell’organigramma del Gruppo Comunale come Presidente, quasi sempre almeno come organo supervisore e di coordinamento. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, a capo del gruppo è posto un coordinatore liberamente eletto dai volontari con periodiche elezioni democratiche cui segue la nomina ufficiale da parte del Sindaco. In casi più rari, il coordinatore è scelto e nominato personalmente dal Sindaco. In genere il comune interviene direttamente nella vita del gruppo comunale di volontariato, finanziandone spesso le iniziative e la logistica, fornendogli quindi un diretto sostentamento, ottenendone in cambio parecchi tipi di servizio, non sempre strettamente attinenti alla protezione civile (quali certi servizi d’ordine, collaborazione nel monitoraggio della viabilità, nei parcheggi, e ancora interventi tecnici di diversa consistenza e natura). Si può affermare dunque che il Gruppo comunale, specialmente nei piccoli comuni, meno dotati di risorse organiche e strumentali, può costituire un vero proprio valore aggiunto alla condizione ordinaria del municipio e della comunità locale. Dal punto di vista della protezione civile propriamente detta, occorre riconoscere che all’interno del Gruppo Comunale molto spesso si riescono a raggiungere risultati di valore significativo, se non addirittura di eccellenza. Esempio classico del secondo tipo sono i gruppi comunali del Friuli Venezia Giulia, elevati al rango di vero e proprio “sistema regionale di protezione civile”. Si tratta di un’esperienza difficilmente ripetibile in altre regioni, poiché sviluppatasi nell’ambito dell’autonomia regionale, con maggiori risorse a disposizione, e tenendo conto che il numero esiguo di comuni presenti nella regione (219 in tutto) consente alla struttura regionale amministrativa di interfacciarsi direttamente con essi bypassando un possibile livello di coordinamento intermedio della provincia, altrove ben presente: un atteggiamento che infatti nelle Regioni a statuto ordinario ben difficilmente potrebbe essere implementato. Vero è che i gruppi
godono di ampi finanziamenti sia in ordine all’acquisto di mezzi e di beni, al magazzinaggio di risorse, ai corsi di formazione e all’addestramento operativo, assicurando da par loro, d’altro canto, un tipo di interventistica urgente anche abbastanza complessa e specializzata, che li avvicina a quella caratteristica dei Vigili del Fuoco. Ogni comune ha un gruppo ben organizzato di volontari di protezione civile, con un coordinatore esperto e una sede ben collocata e dotta di ogni tipo di attrezzatura.

I Vigili del fuoco volontari del Trentino

Un ulteriore scalino di specializzazione ed efficienza, rispetto a quello appena tratteggiato, è sicuramente rappresentato dai Vigili del Fuoco Volontari delle Province Autonome di Trento e Bolzano, veri e propri fenomeni sociali derivanti da una felice attuazione
dell’autonomia, che mal si comprende se non si ha riguardo alle differenze culturali e amministrative della zona rispetto al resto d’Italia. Come è noto, le Province autonome possiedono una capacità finanziaria commisurabile a quella di una Regione, grazie al grado di autonomia loro garantito dalla Costituzione. Detto questo, si può spiegare come mai le due province fondino il loro sistema provinciale su un modello che le avvicina a quello austriaco o a quello francese, tutto fondato su una presenza diffusissima in quasi tutti i comuni di sedi o distaccamenti dei Vigili del Fuoco Volontari. Basti pensare che se il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco in tutto il resto del Paese ha meno di 30.000 pompieri professionisti e circa 5000 volontari (un tipo diverso di volontariato, quello nazionale, ricordiamocelo, che vede la presenza di una componente retributiva), Trento ha invece 8.000 VVF volontari mentre Bolzano ne ha ben 12.000: tutte persone che hanno una professione diversa, ma che hanno la capacità di presentarsi in pochi minuti se chiamate su qualsiasi scenario di disastro o di incidente senza prendere una lira per il loro impiego in
protezione civile.
In Trentino le istituzioni provinciali e comunali provvedono alle attrezzature e alle sedi, alla formazione e all’addestramento. l VVF volontari possono, per legge provinciale (autonoma, non va dimenticato, e quindi corrispondente alle nostre leggi regionali), occuparsi di antincendio e di soccorso tecnico urgente: tutte competenze che nelle regioni a statuto ordinario sono riservate al Corpo Nazionale dei professionisti del Ministero dell’Interno. E che riserva.
Si tratta dunque, quello trentino, di un modello che ha alcuni costi da sostenere (si pensi ai rimborsi ai datori di lavoro oltre che alle spese per forniture di beni e servizi o per manutenzioni) e quindi, come del resto quello friulano, non è automaticamente replicabile altrove. Occorre tuttavia riconoscere che sia il modello trentino sia quello friulano, tra le forme possibili di volontariato locale di protezione civile distribuito, risultano quelle più affascinanti e invidiabili da parte di qualsiasi regione, sul piano sia della pura capacità organizzativa, sia delle possibilità di diffusione sul territorio, del coordinamento e dell’efficacia di azione e, non ultima, la maggiore economicità rispetto alla forma del vigile del fuoco volontario come da noi conosciuto, cioè quello integrato nel Corpo Nazionale e disciplinato dal DPR 76/04.

I Vigili del Fuoco Volontari dello Stato

E’ noto, infatti, che mentre i vigili del fuoco volontari del Trentino non percepiscono alcunché per la loro attività di volontariato, i vigili del fuoco volontari dello Stato percepiscono una paga oraria (ca. 7€ lordi) che, anche se limitata alle ore di effettivo impiego sono un costo notevole per la collettività . Anche a causa di questi costi, il progetto Ministeriale “Italia in 20 minuti”, che doveva aprire 296 nuovi distaccamenti in cinque anni, sta fallendo,se è vero che dopo circa due anni erano stati aperti solo sette
distaccamenti permanenti, due distaccamenti misti e sette sedi di soli volontari. Un ritmo che porterà al completamento del progetto in mezzo secolo.
Ma forse il principale problema aperto dalla presenza della tipologia “statale” di vigile del fuoco volontario, è che tale professionalità costituisce di fatto una sorta di precariato dei pompieri, in cui la gente si colloca in vista di un ingresso nei ruoli permanenti, creando non pochi disagi e conflittualità.
Ma cos’è, in fondo il Vigile del Fuoco volontario che lo Stato e il Corpo accettano e, anzi, sfruttano?
Prima della guerra i pompieri appartenevano ai sindaci, erano comunali e volontari.
Il governo fascista li nazionalizzò e li schierò su base provinciale.
Nel 1941, anno di costituzione del Corpo Nazionale, si contavano 22.000 pompieri volontari e appena 2000 permanenti.
Oggi i permanenti sono diventati 30.000, mentre i volontari sono stati ridotti a 5000.
Pompieri volontari all’epoca, significava anche e soprattutto “pompieri locali”, cioè espressioni e profondi conoscitori del territorio dove venivano impiegati.
Oggi si registra così il sovvertimento del monito che Zamberletti rivolgeva già venti anni fa: “Conoscere è una delle condizioni per poter intervenire efficacemente, e nessuno meglio dei residenti conosce la propria zona; per questo l’organizzazione del soccorso deve essere basata sulla capacità della comunità di sfruttare le proprie risorse per una prima risposta, senza attendere la mobilitazione di specialisti, di task force e di altre strutture istituzionali”.
La legge prevede ormai da decenni questa figura del vigile del fuoco volontario, che proviene essenzialmente dalle file dei cosiddetti “discontinui” (oggi aboliti assieme all’obbligo di leva) ai quali, dopo aver svolto il servizio militare nei pompieri, veniva
consentito, su domanda, di accedere ai ruoli “volontari” per essere richiamati a tempo determinato o per impinguare nuovi distaccamenti o per sopperire a carenze di organico o ancora per interventi di emergenza. Come detto, si tratta di un volontariato improprio, poiché è vero che può darsi il caso che il vigile volontario svolga ordinariamente un altro lavoro e operi dunque nel tempo residuo, ma esiste anche il caso opposto, quello in cui l’attività di pompiere è l’unica volta ordinariamente dalla persona, costituendo quindi una vera e propria professione. E manca soprattutto, a questa figura, il requisito essenziale della “gratuità”, che è tipico del volontariato, e che in questo caso è inesistente, visto che si configura come un vero e proprio rapporto di lavoro di tipo subordinato, anche se anomalo e pagato meno rispetto a quello a tempo indeterminato del professionista, il cosiddetto
“Vigile permanente”.
Di vigili del fuoco volontari ve ne sono oggi circa 5000, distribuiti soprattutto nelle regioni del nord, e costituiscono il “completamento” dell’organico del corpo nazionale.

Esperienze

Da Volontario a Pompiere Volontario

Vi sono tuttavia anche in questo settore improprio del volontariato, esperienze di tipo innovativo, condotte in modo autonomo e creativo in singole zone d’Italia utlizzando i pochi

strumenti messia disposizione dall’attuale sistema. Un’esperienza interessante a proposito dei Vigili del fuoco volontari del Corpo Nazionale, può essere considerata quella delle “convenzioni” intervenute tra il Ministero e alcune singole aggregazioni o associazioni di volontariato, a carattere locale, come avvenuto al Gruppo Volontari del Garda e a al Gruppo Comunale di Garbagnate Milanese, per la costituzione di un Distaccamento dei Vigili del Fuoco Volontari: un modello organizzativo senz’altro esportabile, nonostante, come accennato, non costituisca quello economicamente più vantaggioso per il fatto che ai
pompieri viene corrisposto un rimborso orario.
In questo caso, l’Associazione che si convenziona, già opera anche in altri campi di interventi. Dopo la convenzione, essa può mantenere la sua identità, la denominazione, la divisa etc. Ma ad esse aggiunge i segni distintivi del Corpo Nazionale quando opera per il soccorso tecnico urgente o per l’antincendio. L’Associazione ha l’obbligo di provvedere alla copertura assicurativa dei volontari (non retribuiti), alle sedi (sulle quali possono intervenire peraltro con successo gli Enti Locali), e alle attrezzature. Il Corpo assume obblighi contrattuali relativi alla formazione professionale dei volontari secondo la manualistica standard dei pompieri, alle uniformi da intervento, ai carburanti e qualche altro aiuto per le strutture (ad esempio i mezzi ancora validi ma un po’ più vetusti). Gli interventi operativi sono infine effettuati, naturalmente, sotto il controllo funzionale del Comando Provinciale del Corpo.
Nel caso dei volontari di Desenzano sul Garda, ad esempio, gli steps sono stati i seguenti:

  • spin off della locale Associazione “Volontari del Garda”, con uscita dall’Associazione di un gruppo di volontari intenzionati ad intraprendere l’esperienza;
  • accordo e protocollo di intesa fra cinque comuni limitrofi per dotarsi di un distaccamento di Vigili del Fuoco, e successivo accordo con il Ministero dell’Interno attraverso il Comando Provinciale di Brescia;
  • affitto di un capannone-garage da parte degli enti locali per il rimessaggio di materiali e mezzi;
  • acquisto, sempre da parte degli enti locali, di un prefabbricato e di un mezzo nuovo per interventi, collocato vicino al capannone-garage;
  • copertura da parte dei comuni delle spese vive di gestione e manutenzione di materiali e mezzi e della sede;
  • copertura finanziaria del Ministero dell’Interno dei costi per le divise e gli equipaggiamenti del personale e per i carburanti dei mezzi;
  • messa a disposizione, da parte del Ministero dell’Interno, di alcuni veicoli per intervento, usati ma ancora efficienti;
  • attività di formazione curata dai Vigili del Fuoco permanenti, secondo gli standard formativi ufficiali del Corpo Nazionale
  • attività del Distaccamento svolta in piena autonomia, con organico composto tutto di volontari a partire dal Caposquadra, e dipendenza funzionale dal Comando Provinciale;
  • percentuale di interventi nella Provincia di Brescia a carico del nuovo distaccamento, nei primi mesi, già pari al 25% del complesso degli interventi.

Un ottimo risultato, che è stato però da una felice concomitanza di condizioni locali e nazionali, soprattutto legate ai costi da sostenere: una formula purtroppo raramente
esportabile, soprattutto nei piccoli comuni montani scarsamente dotati di risorse.
E’ evidente che lo strumento della convenzione risulta efficace in quanto si presta duttilmente agli adattamenti più vari, agganciati alle diverse situazioni e allo stato dei rapporti fra gli enti coinvolti. In questi casi i volontari sono soggetti a paga oraria da parte del Ministero dell’Interno, poiché costituiscono un vero e proprio Distaccamento di Vigili del Fuoco Volontari da sempre previsto, e recentemente ridisciplinato dal DPR 76/04. Vi è da dire che gruppi e associazioni adattissimi a questa esperienza sono ovviamente le organizzazioni operanti soprattutto nei settori dello spegnimento degli incendi boschivi e della protezione civile in senso stretto.
Ma è altrettanto ovvio che anche organizzazioni del volontariato spesso impegnate in via ordinaria in settori contigui, come le locali Misericordie o Pubbliche Assistenze, potrebbero indirizzare verso questo compito una quota specifica di
propri volontari normalmente utilizzati nei settori del pronto intervento sanitario o dell’assistenza. Vi è teoricamente, quindi, un campo di azione immenso, che si affida alla capacità del Corpo di offrire la formazione professionale di base e di gestire il coordinamento del quadro di insieme degli interventi.

Il Modello Vincente?

Non resta che considerare l’esperienza dei vigili trentini come la migliore, in quanto a una enorme efficacia corrisponde anche una sostanziale economicità derivante dalla completa gratuità dell’impegno dei volontari, che li avvicina a quelli delle nostre tradizionali associazioni,e dal forte senso di identità e di appartenenza che le comunità locali in quella regione sanno esprimere e dimostrare.

Allora quali possono essere i requisiti e le risorse necessari all’implementazione di un simile
modello in una regione a statuto ordinario? E quali le criticità che si frappongono a tale
iniziativa? Cominciamo da queste ultime.

La prima è la difficoltà di armonizzare un modello regionale simile con il sistema di soccorso urgente assegnato dalla legge statale ai Vigili del Fuoco professionisti, e da loro, tra l’altro, ben gelosamente custodito. In effetti fino ad oggi si è registrata una marcata e non nascosta tendenza, da parte del Corpo Nazionale, ad escludere il volontariato organizzato da certi compiti, e non far invadere da terzi quelle che essi ritengono, a torto o a ragione, le proprie prerogative professionali. Una difesa tanto accurata e minuziosa, che nello stesso progetto del Ministero dell’Interno denominato “Italia in 20minuti”, i vigili del fuoco che lo hanno redatto hanno previsto che, laddove sia impossibile impiantare nuovi distaccamenti dei pompieri per glia motivo tecnico-finanziario o di organigramma, si debba ricorrere all’espediente della ”formazione” dei cittadini all’autoprotezione, saltando a piè pari le possibilità che sarebbero invece offerte da un coinvolgimento preferenziale, nel
progetto di disseminazione di presidi, del volontariato organizzato già esistente sul territorio, da valorizzare adeguatamente in termini di addestramento e naturalmente da guidare e coordinare per gli aspetti legati all’intervento. E ciò senza considerare quali scenari potrebbero aprirsi se nella vicenda del potenziamento del sistema di soccorso dei piccoli comuni montani venissero conseguentemente coinvolti a tutto tondo (anche a livello di contribuzione finanziaria o organizzativa) gli enti locali, in funzione della presenza, nella partita, delle associazioni locali e/o dei gruppi comunali di volontari. Il sospetto legittimo è, in molti osservatori, quello che si voglia evitare un “avvicinamento” tecnico del mondo del volontariato alle competenze proprie del corpo nazionale. Nella vicenda delle attività di soccorso tecnico, non siamo ancora riusciti a superare completamente la visione “centralista” e ministeriale del settore, che deriva dal fatto di avere in Italia l’unico corpo “statale” e “professionista” esistente al mondo (in tutti gli altri paesi i pompieri sono comunali e in massima parte volontari e non professionisti).
Il Corpo nazionale, in materia di copertura del territorio con i servizi di urgenza, ha mostrato finora una tendenza a confinare anche il proprio vigile il volontario (che è comunque, come si è detto, un volontario anomalo, poiché per il periodo di servizio
prestato viene pagato) in un ruolo di supplenza delle carenze organiche del corpo dei professionisti, piuttosto che considerare quella e tutte le altre risorse del volontariato su un piano di parità. Un’impostazione che è legittima se vista dalla prospettiva delle esigenze di servizio interne al Corpo stesso, ma che è distante anni luce e contraria radicalmente alla “filosofia” dei rapporti tra volontariato e servizio pubblico in genere, che è ormai stata chiarita da decenni di dibattito politico-culturale e da conseguente normativa in svariati campi.
In Europa quasi tutti i paesi hanno una forte componente di vigili del fuoco volontari e pochissimi professionisti. Da questo punto di vista l’Italia costituisce quindi una anomalia, non la regola. Già nel 1982 Zamberletti dichiarava, alla luce della “full immersion” nei rischi di ogni tipo che caratterizza da sempre il nostro Paese: “L’Italia dovrebbe poter disporre di almeno 200.000 Vigili del Fuoco volontari, da affiancare a quelli professionisti, per assicurare una buona copertura antincendio e anticalamità in un paese come il nostro che presenta una geografia tormentata e una notevole dispersione degli insediamenti abitativi…”
La nostra situazione vede invece un organico di 25.000 pompieri professionisti e 5000 “volontari” pagati a ore,a fronte di paesi come Francia, Austria e Germania, che ne hanno rispettivamente 200.000, 250.000 e un milione e 150.000.

D’altro canto, lo stesso volontariato non sempre coglie la prospettiva di un potenziamento della propria specializzazione come un valore aggiunto, e fatica a riconoscersi in un progetto che avvicini i tradizionali volontari in tuta gialla, ai vigili del
fuoco volontari di Trento e Bolzano. Il timore, che si diffonde abbastanza acriticamente in assenza di un approfondimento che invece sarebbe dovuto, sembra esser quello della perdita di identità, dello snaturamento della propria funzione, piuttosto che un possibile indirizzo specialistico di quote di volontari all’interno del più complessivo impegno nel mondo della solidarietà e del servizio socio- sanitario, qual è quello tipico dell’associazionismo volontaristico italiano.
Il problema della supplenza del volontariato alle carenze del servizio pubblico è vecchio come il mondo. I servizi di trasporto sanitario si sono sviluppati negli anni ’80 come esperienza di autentica supplenza del mondo del privato sociale nei confronti della vera e propria assenza di strategia e di operatività del settore pubblico, e anche quella esperienza fu all’inizio guardata con diffidenza e fastidio dal mondo della pubblica amministrazione, quasi si trattasse di una vera e propria “invasione di campo”.
La domanda da porsi, in riferimento alla necessità di integrare i servizi sul territorio in modo efficace ed economico, è la seguente: un aumento della responsabilità e del coinvolgimento del volontariato locale nelle attività di pronto intervento, attuato attraverso la creazione di nuclei volontari di intervento assimilabili di “pompieri comunali volontari”, sul modello teorizzato dalla legge regionale della Lombardia ”(Regione Lombardia, L.R. 22.5.2004 n. 16 “Testo Unico delle disposizioni regionali in materia di protezione civile” Art. 6 comma 2: I comuni possono organizzare sul proprio territorio, d’intesa con la provincia, la regione e la direzione regionale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, gruppi specializzati di volontari di protezione civile, denominati nuclei di pronto intervento, con il compito di prestare un primo soccorso tecnico urgente”), in aggiunta o ad integrazione degli altri tipi di servizio già esistenti e resi ordinariamente alla popolazione dal volontariato (i servizi socio-sanitari e assistenziali, per intendersi), quale nocumento può portare all’identità di un’organizzazione? O piuttosto ne aumenta l’importanza e la pregnanza all’interno della comunità?
Il problema è tuttavia anche più ampio, e tocca la qualità dell’applicazione dello stesso principio di sussidiarietà.
Il volontariato si è sempre battuto con forza contro la volontà di considerarlo solo un “tappabuchi” dei servizi pubblici, in ogni settore. La “rete” del volontariato è e deve restare una rete parallela a quella dei servizi pubblici, integrativa nel senso che l’una integra l’altra e viceversa: ma non può essere accettabile che il volontariato sia considerato positivo (e addirittura legittimo) solo ed esclusivamente dove il pubblico non sia in grado o non voglia intervenire, e talvolta, come nel caso del soccorso tecnico urgente, neanche in quel caso.
Una visione “ancillare”, di mera supplenza, è davvero limitativa del ruolo del volontariato, che non ne rispetta la libertà e la concreta dinamica di sviluppo.
Paradossalmente, questo limite contribuisce ad alimentare un equivoco che provoca il distacco e la prevenzione critica di una parte del volontariato organizzato verso la prospettiva stessa di un movimento di pompieri volontari. Il volontariato non vuole essere supplente e neanche “sherpa” dei vigili del fuoco. La parola d’ordine del volontariato dovrebbe dunque essere: né assurda e negativa contrapposizione con il Corpo Nazionale, né preferenza per un volontariato deprofessionalizzato e frantumato.

Il problema è dunque andare “oltre” il progetto “Soccorso Italia in 20 minuti”. Vi è da dire che ultimamente qualcosa sembra essersi mosso nel ritrovato rapporto tra Dipartimento della protezione civile e Corpo Nazionale: a questo proposito qualcosa sta
nascendo anche a livello nazionale: è in corso, infatti, la stesura di un accordo fra Dipartimento della Protezione Civile e Dipartimento dei Vigili del Fuoco, in cui si disciplinano alcune attività da svolgersi in collaborazione, fra le quali vi è la formazione, da parte del corpo, di nuclei di volontari in materia di attuazione della 626/94 e del soccorso tecnico urgente. Ciò costituirebbe un’autentica novità alla quale le regioni dovrebbero subito agganciarsi attraverso appositi protocolli.

La situazione normativa in Italia

Il volontariato esplode come fenomeno tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 come una specie di escrescenza involontaria del sistema paese. Nasce come esigenza del cittadino di contribuire alla costruzione del bene comune spendendo una parte del proprio tempo libero in attività di rilevanza sociale.
Il cosiddetto “terzo settore”, espressione utilizzata per rappresentare il movimento privato sociale) si propone all’attenzione della pubblica opinione come interlocutore delle istituzioni nell’attività di costruzione del sistema sociale ed assistenziale.
Dopo una fase di iniziale diffidenza che in molti casi ha sfiorato l’infastidita avversione, il sistema della pubblica amministrazione ha dovuto accogliere il volontariato come strumento a disposizione del sistema paese per dare risposte compiute e integrate nel mondo dei servizi pubblici con particolare riferimento ai servizi socio-sanitari e assistenziali.
Nel campo della protezione civile, invece, la prima legge organica del dopoguerra (Legge 996/70), scritta dopo l’impressione suscitata dall’alluvione di Firenze, ha previsto la possibilità per i volontari occasionali e spontanei (quali erano stati tutto sommato i cosiddetti “Angeli del Fango” di Firenze) di partecipare alla attività di soccorso e di essere iscritti in un apposito
elenco nelle Prefetture.
Ma è Giuseppe Zamberletti che, presentando a nome del governo il disegno di legge che diverrà la 225/92, ad intuire che occorre sempre di più rivolgersi a un volontariato organizzato e non occasionale. Gli anni ’80 passano così con il disegno di legge che per dieci anni passa da un’aula all’altra, mentre Zamberletti, a suon di ordinanze, provvede ugualmente a coinvolgere le prime grandi associazioni nazionali (ANA, Misericordie) e ha i primi contatti anche con il sottobosco delle piccole associazioni locali disperse nel paese.

La principale normativa di settore
* Legge 11 agosto 1991 n. 266 “Legge – quadro sul volontariato”
* Legge 24.2.1992 n. 225 “Istituzione del servizio nazionale della protezione civile
* DPR 21 settembre 1994, n. 613 “Regolamento concernente la partecipazione delle organizzazioni di volontariato nelle attività di protezione civile.”
* D. lgs 31.3.1998 n. 112 Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59 Art. 108 Funzioni conferite alle regioni e agli enti locali
* Legge 8 Luglio 1998 Nuove Norme in materia di obiezione di coscienza (servizio civile)
* DPR 8.2.2001 n. 194 “Regolamento recante nuova disciplina della partecipazione delle organizzazioni di volontariato alle attività di protezione civile.
* D.L. 30 settembre 2003, n. 269 “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici.”. Art. 20 Agevolazioni fiscali a favore delle associazioni di volontariato e delle Onlus
* D.L. 30 maggio 2005 n. 90 “Disposizioni urgenti di protezione civile” Art. 8. Indirizzi operativi in materia di volontariato

Le caratteristiche salienti di ciascuna norma

La legge 11 agosto 1991 n. 266

* esalta e stabilisce al contempo la gratuità dell’impegno del volontario
* stabilisce l’incompatibilità con il lavoro subordinato;
* definisce il termine “organizzazione di volontariato”
* determina la libertà di scelta della forma giuridica
* impone alcune tutele a garanzia del volontario (assicurazione, infortuni, ecc)
* prevede la creazione di registri regionale e provinciali
* la possibilità di stipulare convenzioni con gli enti pubblici
* le agevolazioni fiscali possibili

Legge 24.2.1992 n. 225: “Istituzione del servizio nazionale della protezione civile

*individua finalmente nelle organizzazioni di volontariato un interlocutore privilegiato per le
attività di protezione civile;
* con l’articolo 11 riconosce alle organizzazioni di volontariato la dignità di struttura
operativa parificata con quelle tradizionalmente considerate (VVF, FF.AA., FF.OO);
* con l’articolo 18 invece, riconosce alle “organizzazioni” del volontariato e rinvia ad un
regolamento da emanarsi il compito di disciplinare nel dettaglio il rapporto del
volontariato con il sistema, con particolare riferimento alle modalità procedurali di
partecipazione dei volontari alle attività e di accesso ai contributi finanziari.

DPR 21.9.1994 n. 613
La prima normativa generale organica che che disciplina le Organizzazioni di Volontariato nelle attività di protezione civile.
* Definisce le organizzazioni di volontariato di p.c.
* Definisce i requisiti delle Associazioni “liberamente costituite e senza fini di lucro” per svolgere e promuovere le attività specifiche della previsione, della prevenzione, del soccorso e della formazione per la protezione civile
* Istituisce l’Elenco Nazionale di Volontariato (elenco per il momento di tipo ricognitivo)
* Prevede la concessione di contributi finalizzati al potenziamento delle attrezzature e miglioramento della preparazione tecnica;
* Subordina l’iscrizione all’elenco al parere del Prefetto, in quel momento ritenuto dalla legge l’organo competente a livello provinciale;
* Regola la partecipazione delle Associazioni alla predisposizione dei piani di protezione civile
* Disciplina l’intervento delle associazioni nelle attività previsione prevenzione e soccorso
* Disciplina le esercitazioni e la formazione
* Prevede una tutela giuridica per il volontario lavoratore dipendente
* Prevede i rimborsi spese carburanti e viaggi per le attività autorizzate

D. lgs 31.3.1998 n. 112
”’Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali”’:
In attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59” , riassegnando diverse funzioni in materia di protezione civile agli enti locali, all’articolo 108 stabilisce che
* la regione ha il compito di effettuare gli interventi necessari all’organizzazione e all’utilizzo del volontariato.
* ai comuni spetta il compito di utilizzare il volontariato di protezione civile a livello comunale e/o intercomunale, sulla base degli indirizzi nazionali e regionali.

DPR 8 febbraio 2001 n. 194
”’Regolamento recante nuova disciplina della partecipazione delle organizzazioni di volontariato alle attività di protezione civile”’.
Il DPR 194 viene emanato in sostituzione del vecchio superato DPR 613 soprattutto per armonizzare la normativa con le novità introdotte dal Bassanini, con particolare riferimento al nuovo ruolo di regioni e d enti locali e il sostanziale superamento del sistema centralistico fondato sul prefetto, che caratterizzava il 613. Tenta inoltre di dirimere alcuni problemi creatisi nel tempo nell’applicazione delle procedure ai volontari sul piano dell’attuazione pratica.
Così, il DPR 194
* attua un coordinamento della precedente regolamentazione con il D.L. 112/98 per implementare le nuove funzioni attribuite alle regioni e agli enti locali anche in tema di volontariato
* prevede una maggiore Esigenza di maggiore tutela giuridica nei confronti del volontariato impiegato a fronte dei nuovi e molteplici impegni
* introduce l’utilizzo definitivo del termine “organizzazione” (il vecchio 613/94 parlava di “associazioni”) soprattutto al fine di ricomprendere i “gruppi comunali”.
* stabilisce, seguendo il Bassanini, che l’iscrizione all’elenco Nazionale avviene per il tramite delle Regioni, che sono chiamate ad esprimere un parere tecnico sull’operatività delle organizzazioni;
* stabilisce altresì che le grandi Organizzazioni Nazionali vengano iscritte direttamente dal Dipartimento Nazionale;
* prevede la concessione di contributi economici alle organizzazioni, finalizzati all’acquisto di mezzi o alle iniziative di formazione;
* statuisce per il volontario impegnato in attività di protezione civile il mantenimento del posto di lavoro, del trattamento economico e previdenziale e la copertura assicurativa e infine il rimborso ai datori di lavoro e ai volontari lavoratori autonomi;
* disciplina le procedure per le attivazioni in emergenza e per le esercitazioni e la concessione dei relativi benefici;

D.L. 30 settembre 2003, n. 269

”Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”
disciplina alcune importanti agevolazioni fiscali a favore delle associazioni di volontariato e
delle Onlus.

D.L. 30.5.005 n. 90

“Disposizioni urgenti di protezione civile”, infine, pone in capo al Presidente del Consiglio dei ministri, e quindi al Dipartimento, il compito di predisporre gli indirizzi operativi per il volontariato,
al fine di assicurarne il coordinamento unitario.