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I piani di emergenza entrano a far parte della cultura italiana di protezione civile con un po’ di ritardo, intorno alla seconda metà degli anni novanta, soprattutto sulla scia degli insegnamenti ricavati dall’occorrenza di più e più accadimenti disastrosi. Una scarsa propensione alla programmazione a livello istituzionale e organizzativo, nonché una certa confusione nella lettura e nell’interpretazione della normativa in ordine a ruoli e competenze causata nel tempo dal sovrapporsi delle leggi via via emanate, hanno contribuito senz’altro all’accumulo di questo gap che con fatica stiamo ancor oggi cercando di colmare. Di piani di emergenza si comincia a parlare in Italia in qualche provvedimento normativo tra gli anni 70’ e gli anni ’80 ponendo in capo tale compito al Ministero dell’Interno e ai Prefetti ma senza spiegare in sostanza in che consistessero i piani di emergenza e su quali supporti tecnico-scientifici dovessero poggiare. Ciò si risolveva in effetti nell’unica programmazione possibile da parte di una struttura di origine burocratica e di polizia quale la Prefettura di quegli anni, vale a dire il censimento delle risorse (soprattutto umane e professionali) a disposizione dei vari enti sparsi sul territorio, e l’accertamento della loro pronta reperibilità ed attivabilità mediante il migliore utilizzo possibile delle rudimentali tecniche di comunicazione disponibili all’epoca.
Con l’avvento della quadripartizione delle attività di protezione civile fra previsione, prevenzione, soccorso e superamento statuito dalla 225/92, entrano prepotentemente sulla scena il ruolo della comunità scientifica e la professionalità tecnico-amministrativa presente negli enti locali, che assumono su di sé l’onere affatto nuovo di programmare tutta una serie di fasi di studio e di iniziative tecniche propedeutiche alla tradizionale gestione del momento parossistico degli eventi. Ciò determina l’immediata obsolescenza del ruolo delle Prefetture, che risultano inadeguate dal punto di vista degli organici,del know how tecnico e delle risorse necessarie a garantire lo studio e l’approfondimento di tutte le fasi previste e richieste. I primi anni di applicazione della 225/92, tuttavia, non riescono a mostrare una particolare fioritura di iniziative in tema di piani di emergenza. Bisognerà attendere la seconda metà degli anni ’90, quando, dopo l’alluvione della Versilia del 1996 e le frane in Campania del 1998, comincia a farsi strada, in qualche sindaco italiano, l’idea che sia necessario conoscere il rischio in comune piuttosto che nelle facoltà universitarie o nei cassetti riservati delle istituzioni dello Stato.
Il “decreto Sarno” e la riforma amministrativa detta “Bassanini”, entrambe del 1998, nel quadro della riforma complessiva della autonomie locali, stabiliscono finalmente l’obbligo e al tempo stesso la dignità e il diritto per gli enti locali di prepararsi all’emergenza senza rassegnarsi a richiedere aiuto allo stato solo “dopo“ il disastro. Da allora si assiste alla progressiva maturazione del sistema, con la fioritura, nei comuni e nelle province italiane, di una nuova disponibilità alla preparazione dell’emergenza attuata attraverso la stesura di piani di diverso genere e di diversa fattura. Talora si tratta di documenti anche assai complessi e moderni, che possiedono la positiva peculiarità di essere fondati su una conoscenza accurata e aggiornata del territorio ma magari non la necessaria “leggibilità” da parte degli operatori e dei cittadini che poi in ultima analisi dovrebbero essere i principali utenti di un piano.
Spesso tende ancor oggi a confondere la stesura di un piano speditivo di emergenza con la redazione di una complessa pianificazione delle attività generali di protezione civile in una struttura. Anche per ovviare al rischio di una Babele dei linguaggi, presso il Dipartimento della protezione civile verso la fine degli anni ’90 è stato predisposto un metodo, detto Metodo Augustus che, oltre alla nobile finalità della divulgazione delle tematiche della protezione civile, ha lo scopo di rendere più semplici e lineari i processi di predisposizione dei piani, attraverso l’uso di un linguaggio unificato, l’individuazione di alcuni obiettivi ineludibili di preparazione e di salvaguardia da conseguire, e il suggerimento di alcuni step metodologici fondamentali per riuscire nello scopo con efficacia econ poco dispendio di energie e di risorse.